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Sacred Games

Uscita il 6 luglio scorso in contemporanea mondiale, Sacred Games è la prima serie tv indiana prodotta e distribuita dal colosso del videostreaming Netflix e sfonda le barriere del comune pensare occidentale sulla produzione cinematografica solo Bollywood e lustrini del subcontinente.

Prima stagione da 8 puntate che copre solo un quarto del romanzo opulento di Vikram Chandra “Sacred Games”, tradotto anche in Italia (Giochi Sacri), presta il volto della nota star di Bollywood Saif Ali Khan alle indagini del poliziotto Sikh Sartaj Singh. Le amare giornate post-divorzio dell’ispettore mumbaita saranno interrotte da una telefonata che cambierà la sua vita privata e lavorativa: il ricercatissimo gangster Ganesh Gaitonde (interpretato da Nawazuddin Siddiqui) è rimerso dal nulla dopo 16 anni e profetizza gravi eventi e sconvolgimenti per la città di Mumbai entro 25 giorni. Nella corsa contro il tempo e nella ricerca della verità, Sartaj si troverà intricato in un tessuto fittissimo di relazioni tra mafia, politica e jet set della città, dove ogni le azioni di ognuno modificano la sfera del potere dell’altro, con serie minacce per la sicurezza dei cittadini.

Non troviamo quasi nulla degli artefici Bollywoodiani, questa serie emana l’India autentica: Mumbai è Bombay, come ogni fiero abitante la chiamerebbe, con i suoni vigorosi del traffico incessante e i richiami di corvi e rigogoli sugli alberi, le pale al soffitto sempre accese e il caldo delle giornate in un distretto di polizia fra una grana e l’altra, i rientri a casa con il boiler che non funziona e la misera umanità dei bassifondi. Il Censor Board non è arrivato a tagliare scene di sesso e neanche il linguaggio a volte scurrile eppure così efficace nella cruda realtà di emergenze, complotti, omicidi.

Rispetto al romanzo, la Bombay di Anurag Kashyap è trasposta in un presente più tecnologico dove le comunicazioni scorrono veloci con il supporto degli smartphones, ma il tentativo di rendere il racconto attualissimo è comunque ben riuscito.

Completo di rimandi a veri accadimenti della storia e della politica indiana, i protagonisti mafiosi sono liberamente ispirati ai grandi Don della malavita di Mumbai: Dawood Ibrahim, Chota Rajan e la D-company da un lato e Arun Gawli dall’altro sono le eminenze grigie che per anni hanno pilotato la vita politica, i traffici di armi e droga nel paese. Citazioni e veri filmati integrano gli episodi senza essere politically correct, facendo storcere il naso a Rahul Gandhi, attuale presidente del Partito del Congresso, per la descrizione impietosa che la serie riporta commentando il caso Shah Bano, una scelta politica infelice dell’allora Primo Ministro Rajiv Gandhi, padre di Rahul, assassinato poi nel 1991.

 

C’è da chiedersi se la serie riscoperchierà temi delicati per il paese e rilancerà il dibattito su traumi nazionali malamente riposti sotto il tappeto e che, con l’attuale governo Modi, appaiono bombe a orologeria tenute sotto sorveglianza.

Il pubblico indiano ha apprezzato molto i contenuti senza filtro, al contempo la serie ha aperto contenuti indiani con trattamento cinematografico internazionale ad un pubblico nuovo, serie-dipendente e affamato di stimoli. Il rischio è che un pubblico meno specializzato in temi indiani possa godere della finzione narrativa senza cogliere le sfumature e le stoccate polemiche che aggiungono spessore e spunti di riflessione sulla attuale gestione economica, sociale e politica della nazione.

Le recensioni molto positive fanno già parlare di una conferma per l’inizio delle riprese della seconda stagione, che dovrebbe essere trasmessa nel 2019.

 

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